L'Italia Mensile

Il Cavaliere è morto, Dio salvi il Cavaliere!

di Giuseppe Provenzale

“Eh, ma una redazione che si rispetti avrebbe già dovuto preparare almeno un ‘coccodrillo’!…”, “Era questione di giorni, qualche settimana al massimo!”… già, ma chi, come noi, è mosso da ‘intelletto d’amore’ – e della ‘proprietà del salmone’ rispetto ai vecchi schemi ha imparato a servirsi da tempo – non può non provare un certo imbarazzo dovendo scrivere di Silvio Berlusconi a poche ore dalla morte.

La semplice ragione che ciò significhi affrontare gli ultimi trent’anni della storia italiana – storia del costume e della politica, per quanto di quest’ultima arte è ancora consentita la pratica nei desolati territori della colonia italia (la minuscola è d’obbligo) – costituirebbe già di per sé una ragione più che sufficiente, ma tutto ciò deve essere guidato dal cristiano rispetto per la morte, sostanziale elemento di cui, in giro, non pare certo esservi abbondanza.

Inoltre, ad aggravare il quadro, pare quasi che la nota evidenza di certe modalità comportamentali del defunto Cavaliere autorizzi chiunque a presiedere tribunali la cui esistenza storica quel medesimo chiunque volentieri cancellerebbe.

Chi scrive, da siciliano in Sicilia, non perdona al Berlusconi imprenditore televisivo quell’accelerazione onnipresente che fu in grado di imprimere alla rilevanza della scatola Tv nelle menti di troppi italiani, quel superamento dei limiti fino a quel momento consentiti per raggiungere lo scopo di catturare l’attenzione dello spettatore.

E, ancora, da siciliano in Sicilia, qualcosa d’altro a cui dopo accennerò.

Detto questo, però – e senza entrare nel merito di quelle che saranno le future sorti della sua, personale creatura politica – sarebbe ingiusto non riconoscergli il merito di essersi mosso, proprio quando ricopriva incarichi di governo (e va ricordato sotto quest’ultimo aspetto che, nel bene e nel male, la sua ultima esperienza di premierato è stata a lungo (dodici anni…) l’ultima scaturita dal consenso popolare), tenendo conto di quello che era il minimo sindacale per i reali interessi nazionali, fatto più che evidente se solo si guarda con un minimo di obiettività alla politica estera, settore essenziale per l’esercizio di un barlume di sovranità e, quindi, non certo a caso, affidato dal Drago al capacissimo frequentatore di buffet internazionali, Di Maio.

Prima che anglo-americani e francesi decidessero di far fuori Gheddafi, Berlusconi aveva assicurato all’Italia trent’anni di autonomia energetica e la garanzia del controllo in Libia dell’immigrazione clandestina, non mi pare che simili risultati siano stati raggiunti da altri in Nord Africa, nemmeno per quanto riguarda solamente la seconda delle questioni ricordate.

Quel 2011 fu un annus horribilis per l’Italia e gli equilibri nel Mediterraneo, la letterina di commissariamento di Draghi e Trichet fu un autentico colpo di grazia per strategie che mirassero a garantire pace, energetica e sociale.

La personalità e la formazione craxiana dell’imprenditore milanese, costituivano – ed è proprio la futura assenza dalla scena politica dell’impronta di questi due fattori a rappresentare, sul piano umano e politico, la perdita più pesante – una sorta di investimento per il futuro, fondato sulla logica imitazione di quegli atteggiamenti virtuosi che distinsero positivamente, nel caso di Moro, ad esempio, fino all’estremo sacrificio, l’azione e gli obiettivi dei migliori uomini politici della prima repubblica.

Ma, come hanno ricordato le agenzie russe, già nel 1994, Berlusconi era stato “il primo primo ministro occidentale a firmare il Trattato di amicizia e cooperazione con la Russia” e aveva ricoperto un ruolo fondamentale “nella creazione del Consiglio Russia-NATO, che si riteneva avesse posto fine alla Guerra Fredda”.

Nel 2015, si era recato in Crimea, guadagnandosi l’ostracismo di Kiev con il divieto di entrare in Ucraina per tre anni e pochi mesi fa – rubando la scena a quella Giorgia Meloni di cui conosce ogni più piccola sfaccettatura – sempre contrario alle sanzioni, si era presentato come unico, possibile mediatore in grado di essere ascoltato da Putin.

Proprio quello di lavorare seriamente alla mediazione, sia detto per inciso, avrebbe potuto e dovuto essere il profilo dell’Italia in tutta l’intera vicenda che proietta una luce minacciosa sui destini del mondo.

Non mi pare sia poca cosa, nell’azione del Cavaliere traspare una volontà d’azione autonoma, ormai requisito escludente dalla scena politica di una qualsiasi colonia occidentale, in linea con le basi della geopolitica e i relativi interessi nazionali.

Ed è così che anche un ‘semplice’ self made man prestato alla politica – comunque ostinatamente liberale, quando il liberalismo resta la causa prima dei profondi guasti dell’ora presente – un Berlusconi semplice – lo stesso che in Sicilia sapeva su chi appoggiarsi per vincere o per rimanere determinante anche nella sconfitta – pur non essendo giunto, di fronte al golpe, per eccesso di ricattabilità, ad una eclatante chiamata alle piazze che avrebbe potuto cambiare il corso della storia nazionale, morendo, fa riflettere su quanto resta attorno e accende un secondo sole su un palcoscenico vuoto di reali presenze, luogo ormai popolato da figuranti prezzolati affinché vomitino illogici canovacci scritti (e riscritti) male ed altrove.

Il Cavaliere è morto, Dio salvi il Cavaliere!

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