L'Italia Mensile

INDIVIDUO E COMUNITA’ NELLA DIALETTICA FRA INTIMO E COMUNE.

Maurizio Neri

Introduzione.

Il comunismo non è il superamento della contraddizione per l’uomo tra bene e male o tra egoismo e solidarietà. Esso è piuttosto il luogo in cui tali contraddizioni naturali, parti integranti del nostro individuale cammino, possono svolgersi al di fuori dell’alienazione sociale e all’interno di strutture comunitarie buone per l’uomo e per la sua potenziale vocazione solidaristica.


Il comunismo nella comunità che pensa sé stessa in termini universali, è il superamento dell’unica contraddizione che sovrasta l’uomo al di là della sua sacra e inviolabile intimità e personalità: la contraddizione cioè tra vita personale e vita comunitaria. Tale superamento della contraddizione, d’altro canto, non è fusione della vita personale con la comunità, ma anzi è il presupposto per la più netta e viva distinzione tra piano intimo e piano comunitario: distinzione che tuttavia è concetto diametralmente opposto a quello di separazione.

Come proverò a spiegare in seguito, il paradosso della struttura sociale capitalistica è la coesistenza della più brutale separazione tra individuo e società con la più volgare e pericolosa mancanza di distinzione tra di essi. Nella contemporanea società capitalistica pubblicitaria ed a-politica l’intimo si rovescia nel pubblico e il pubblico nel privato. Il corpo di una donna seminuda viene sbattuto sui cartelloni pubblicitari per stimolare lo spirito acquisitivo in mezzo alla massa passante ( l’intimo che si fa ignominiosamente pubblico) mentre l’acqua e le risorse naturali vengono privatizzate ( il comune che si fa privato).


La necessità del rovesciamento della dicotomia pubblico-privato sottesa alla società capitalistica nella dicotomia intimo- comune sottesa al comunismo nella comunità autocosciente, è la sintesi estrema di quanto proverò a dire in queste pagine.


Indagare a fondo la socialità umana implicherebbe un’accurata dissertazione, tuttavia non voglio esimermi dal farlo seppur in termini che siano il più possibile sintetici, ma approfonditi al tempo stesso.


La felicità umana riposa nella vitalità della relazione con il prossimo, nella capacità di amare ed essere amati e di percepire la vicinanza dell’altro, come unica via reale per approdare a quel senso di totalità che è il presupposto per la gioia.
La gioia di vivere è preceduta da atti d’amore reciproci, anche poco visibili a volte, che ci conducono, nella vita, ad apprendere ogni cosa, e a vivere come uomini, ovvero sviluppando quell’innata socialità e razionalità che ci è propria e ci appartiene, come genere, universalmente.


Tutto ciò che di bello viviamo e possiamo vivere passa o è passato attraverso atti d’amore provenienti da altri uomini che si sono presi cura di noi. Ed in ogni atto d’amore ricevuto non v’ è mai un doppio significato o una doppia finalità, non v’è mai coesistenza tra un obiettivo di condivisione e un obiettivo di accrescimento illimitato del proprio io e del proprio avere e possedere.

Se ogni atto d’amore, infatti, procede per libera cessione di sé all’altro, esso si caratterizza già di per sé come atto che per sortire un effetto illimitato e profondo, pone un limite razionale a chi lo compie: il limite del controllo delle proprie passioni e dei propri istinti di fronte al prossimo e dunque il limite al proprio egoismo. L’egoismo illimitato è dunque incompatibile con la simpatia dei gesti d’amore verso il prossimo.


Questo presupposto, che molti potranno ritenere superfluo, non lo è affatto, laddove nel tempo odierno viviamo precipitati in strutture sociali che si auto-legittimano utilizzando parametri di riferimenti estranei, in verità, al mio presupposto.


Ritengo che non soltanto l’intimo rapporto personale, bensì anche ogni rapporto umano sociale, ovvero che produce un contatto reale derivante dal vivere in comune, anche se non in intimità, sia intrinsecamente legato ad una cessione di sé al prossimo, cui è sotteso un implicito e riconosciuto senso del limite e della misura rispetto all’espansione illimitata di sé.

Tale senso del limite non deve essere inteso come una forzatura violenta che l’uomo sovrappone a sé stesso per frustrare il suo istinto naturale, ma al contrario, come libera ricerca ed adesione alla propria misura, come raggiungimento di un equilibrio: equilibrio che è massima espressione ( e non espansione) di sé stessi, che è piena adesione alla vita; laddove il superamento del limite è invece negazione di sé stessi e della misura che ci appartiene.


Se un gesto sociale, come il produrre, diviene invece movimento anarchico fondato su un’ autodeterminazione astratta decontestualizzata da una comunità che è divenuta società invisibile per la stratificazione dei rapporti sociali, tale gesto cessa di essere comunitario nelle intenzioni, pur rimanendo gesto sociale negli esiti e nelle ripercussioni. Proprio da qui nasce quella contraddizione esiziale che ci condanna a sentirci parte di un tutto in forma vaga, senza poter apprezzare e percepire tale totalità nelle intenzioni, ma continuando a subirla ed a crearla nei suoi effetti reali.


Il capitalismo come sistema sociale è infatti giustificato ricorrendo a presupposti utopistici a mio avviso contraddittori, e non conformi con il presupposto da me individuato per cui è solo l’atto d’amore razionale e curato ( dunque consapevole del senso del limite) e, dunque, profondo e illimitato negli esiti, a porre le condizioni per la conoscenza umana e per l’esplicarsi della socialità.

Capitalismo utopistico e contraddizione tra individuo e comunità

Il paradosso del capitalismo come sistema sociale, in effetti, è nelle sue premesse utopistiche di automatismo del movimento degli individui, i quali esprimono la simpatia tra persone ( Adam Smith è ben chiaro in proposito) attraverso l’esplicarsi di continui atti egoistici di accumulazione illimitata di beni, e di miglioramento illimitato della propria condizione materiale. Il fatto che si attribuisca a tali atti sintetizzati in un unico atto collettivo anonimo ( il mercato) un segno ed una manifestazione della simpatia tra uomini, rappresenta la contraddizione principale di cui parlo.


Tacciare il capitalismo e la sua ideologia ( il liberalismo) di essere frutto di una volontà egoistica prevalente sulla volontà solidale, non farebbe comprendere il punto nodale del problema, cioè il carattere utopico della riflessione sul benessere possibile all’insegna della società di libero mercato dove viene soppresso il momento politico riflessivo comunitario.
Non valutare tale aspetto significherebbe proporre uno schema dicotomico dove da una parte vi è la massa di individui egoisti che gioiscono della lotta fratricida, sostenitori dell’ordine attuale, e dall’altra un gruppo di romantici altruisti in lotta per il cambiamento.


Se così fosse, dovremmo abbandonare ogni velleità politica e limitare la nostra azione alla conversione etica della “massa corrotta” dall’odio e dall’egoismo.


Ebbene, pur credendo fortemente nel fattore educativo-esemplare anche a proposito delle singole individualità, ritengo parallelamente essenziale svelare l’elemento utopico di simpatia universale insito nell’ideologia liberale e nel sistema che ne è il figlio naturale ( il capitalismo senza politica); tanti sostenitori, attivi o passivi, dell’attuale ordine costituito, non sono affatto belve egoiste impazzite, ma uomini che si ingannano e che assorbono una falsa ideologia consolante.


Svelato tale elemento utopico, se ne potrà in seguito smontare pezzo per pezzo la falsa solidità, mostrarne l’assurda e nefasta contraddittorietà, e sostenere con ottime ragioni la necessità esistenziale di un ordine comunitario dove gli uomini possano coscientemente essere parte della totalità, senza ridursi schiavi di essa.


L’atto di produzione anarchica e casuale produce conseguenze immediate anche se non sempre visibili nel suo intorno.
L’aumento di vendite di un produttore, nell’anarchia produttiva, può comportare il fallimento di un altro produttore, la sua scomparsa nel mercato, la fine del suo lavoro, e dunque della sua specifica forma di espressione sociale.

Se il gesto sociale ( e non comunitario) di produrre, vendere e comprare a proprio piacimento viene autonomamente considerato come libera scelta che, se condivisa da tutti gli individui, diverrà occasione di simpatia universale, si cade in un artificio del pensiero privo di qualunque senso se non quello dell’idolatria del progresso materiale come unica forma riconoscibile di risultato dell’interazione collettiva tra uomini.


Non è possibile infatti considerare a posteriori l’insieme degli atti individuali che ogni uomo compie nella libertà slegata dalla comunità, cioè la libertà dall’altro, un compiuto atto generale di simpatia e unità, senza cadere nell’erronea considerazione dell’uomo come ente naturale qualsiasi simile ad un albero o ad una formica.


Il funzionamento della natura agli occhi dell’uomo, si presenta, in effetti, come lo svolgersi casuale di eventi slegati che trovano una propria armonia a posteriori. La natura è ammirevole e compiuta in sé stessa per il fatto di manifestare un equilibrio a posteriori percepito come tale dall’uomo.


Per l’uomo è possibile esprimere un simile giudizio sulla natura poiché egli percepisce la sofferenza degli enti naturali come qualcosa di strettamente legato ad accidenti materiali, dunque non meglio gestibile che attraverso la legge della giungla.

Se non v’ è sofferenza spirituale, infatti, non vi è neanche tensione spirituale all’unità, e dunque, non v’ è alcuna necessità di un ordine che non sia quello della legge del più forte. Tale legge, infatti, manifesta a posteriori dei risultati che, visti dagli occhi dello scienziato e dello statistico, sono risultati straordinari in termini di conservazione di equilibri biologici, salvaguardia della vita intesa come vita generica, e riproduzione dello stato presente in stati futuri.


L’economia capitalistica e l’ideologia a-politica che la sostiene e difende, pur non riconoscendolo a parole (se non nelle sue versioni forti e forse più coerenti) si fonda ( al di là del correttivo contingente) sul riconoscimento di un’unica legge ferrea accettata da tutti: la legge della libera concorrenza, ovvero del libero prevalere del più forte sul più piccolo, ovvero del libero distruggersi, ovvero la legge della giungla.


L’ideologia posta a difesa di questa legge presenta un aspetto peculiare: mentre animali e piante non teorizzano la legge del più forte, ma la vivono già in atto, gli esegeti del capitalismo e della libera concorrenza costruiscono una teoria ( con tanto di giganteschi e raffinati supporti matematici e statistici) sulla presunta superiorità etica della legge dell’annientamento dell’uomo contro l’uomo ( la libera concorrenza, appunto) come forza di efficienza e progresso per la totalità considerata a posteriori secondo parametri di benessere materiale accresciuto, al di là cioè delle reali conseguenze sulla vita di ogni uomo intesa come luogo di conseguimento della felicità.


E’ evidente il fatto che l’organizzazione capitalistica poggia su basi del tutto innaturali ( nel senso di natura umana razionale e sociale), che vengono fatte passare per naturali attraverso un artificio teorico a posteriori che muove da un errore fondamentale: l’utopia contraddittoria secondo cui atti finalizzati alla massima espansione dell’io e cui è strutturalmente estraneo il senso del limite ( limite che si intende come forma di controllo di sé nella reale simpatia universale ), potrebbero portare inconsciamente ad un’armonia collettiva.


La società capitalistica reale deve essere, prima di tutto, criticata nel profondo non per i suoi esiti tragici, presunti da alcuni come deviazioni da una possibile armonia tradita da eccessi monopolistici contingenti; non deve essere cioè criticata come tradimento dell’utopia smithiana della libera concorrenza liberatrice (trasmutata, solo un secolo più tardi e attraverso una pura ideologizzazione, in espediente tecnocratico tramite la teoria neoclassica onirica della concorrenza perfetta).


Essa deve essere radicalmente criticata per il suo stesso presupposto utopico contraddittorio generatore della scissione spirituale (definitiva nel capitalismo assoluto odierno, spogliato dalla politica) tra individuo e comunità.ù


Questo scritto non vuole scendere nel dettaglio della critica del modo di produzione capitalistico in tutte le sue specificazioni. La premessa della critica radicale del presupposto utopico e contraddittorio dell’ideologia che sorregge ( dall’intellettualismo organico fino alla mentalità popolare spicciola) il capitalismo odierno nella sua fase assoluta, mi è necessaria per affermare la volontà di cambiamento, la cui finalità più generale è proprio il recupero dell’unità ( nella distinzione) tra individuo e comunità; unità che la società capitalistica esclude già a partire dal suo presupposto utopico ed umanista teorico professato. Un’utopia ed un umanismo, dunque, cattivo e da respingere come generatore (anche se alla radice inconsapevole ) di pericolosissimi ed amari frutti.


Bisogna adesso, discutere riguardo a come il comunismo possa essere il movimento reale di superamento della divisione arbitraria e forzata tra individuo e società e della trasformazione della società in comunità.

Individuo e Comunità: compenetrazione e distinzione di due entità.

Per parlare a mente lucida del comunismo come legittima possibilità di organizzazione umana da conseguire nel reale attraverso la formazione di comunità solidali e compiute, tramite il progressivo cambiamento delle strutture e delle coscienze, bisogna ripartire proprio da quell’idea di capitalismo utopico, smithiana, respingendone integralmente il presupposto spontaneista prima ancora dell’esito catastrofico reale.


All’astrazione dei rapporti sociali che si determinano attraverso casuali movimenti spontanei di ciascuno, un comunismo comunitario deve opporre l’altissima considerazione del momento decisionale razionale, come momento di profonda condivisione umana e di possibile raggiungimento di un’armonia collettiva cosciente a priori.


Nella comunità l’armonia oggettiva finale è impensabile senza l’armonia intenzionale soggettiva di ciascuno, e non può esistere alcun equilibrio teorico valutabile ex-post ( sulla base, ad esempio, del progresso materiale conseguito) che non proceda dallo stato cosciente di partecipazione e di ordine per ciascuno fin dal principio della sua appartenenza.


In questo senso Marx, nel formulare una teoria comunista senza Stato, si poneva in continuità con l’aspetto utopistico della risoluzione totale della conflittualità senza mediazione politica cosciente: se nell’utopia capitalistica la risoluzione della conflittualità classista dell’ordine antico feudale doveva avvenire con la paradossale e suicida esaltazione della conflittualità individuale a priori ( cioè quella soggettiva ed intenzionale che si esprime nell’atto egoistico sociale di ciascuno), nell’utopia comunista di Marx tale risoluzione avviene attraverso la definitiva soppressione di ogni rapporto cristallizzato, da quello di soggezione personale di diritto caratterizzante l’antico regime, a quello di soggezione di fatto al capitale, caratterizzante il modo di produzione capitalistico.

Il fatto che l’utopia comunista di Marx fosse un’utopia inscritta all’interno della misura umana ritrovata nel limite e nell’adesione all’essenzialità della vita, e che invece l’utopia capitalistica fosse un’utopia dell’illimitato e del delirio smisurato dell’immane raccolta di merci, è un fatto assolutamente fondamentale e dirimente, ma al momento non necessario ai fini dell’aspetto utopico spontaneistico, ad entrambe le utopie comune, che mi interessa indagare.


Soppressi gli elementi di soggezione dall’esterno ( di diritto e di fatto) e le loro cristallizzazioni ideologiche conseguenti ( le sovrastrutture culturali, religiose, politiche ), secondo Marx, si sarebbe potuti giungere al comunismo, ovvero la potenzialità solidaristica umana si sarebbe potuta risvegliare dal torpore, a partire dalla spontaneità dei rapporti e dall’autorganizzazione, senza cioè passare per il momento politico e, a priori, etico, credendo che la contraddizione tra uomo e uomo nel relazionarsi in società si sarebbe estinta automaticamente una volta estinti anche i suoi presupposti oggettivi ( la proprietà privata come rapporto giuridico tutelato dalla legge). In tal senso la rivoluzione borghese non poteva che essere vista come fattore progressivo in sé ( seppur parziale e falso), poiché dava inizio al processo di decostruzione dell’esistente.


( In proposito coloro che vedono in Marx il responsabile dell’elemento ultra-politico parossistico del comunismo realmente esistito, stravolgono completamente l’ordine dei problemi, poiché l’eccesso di Marx fu semmai individualista, e non certo collettivista e ultra-politico).


Affermare la centralità della comunità come luogo di esplicazione reale del comunismo, significa esattamente respingere ogni pretesa positivistica del comunismo come movimento procedente dalle relazioni spontanee di uomini liberati dalle catene dell’ideologia, della proprietà, e in una parola, di uomini liberati dalla contraddizione tra società e individuo.


Tale contraddizione in sè non è superabile, a mio avviso, con il trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello cooperativistico comunista, poiché permane strutturale all’uomo una dialettica (che lo caratterizza naturalmente) tra sfera intima e sfera comunitaria che lo induce ad occuparsi di ciò che è in comune in maniera profondamente diversa rispetto a ciò che è intimo (diversa e non qualitativamente peggiore o eticamente meno fondata)
Capire questo è un passo decisivo per rivendicare l’autonomia della politica comunitaria come luogo di partecipazione reale ontologicamente distinto dall’individuo.


Anche qui, la differenza tra distinzione e separazione è essenziale: separazione significa alienazione e soprattutto si traduce in un’operazione astratta e teorica possibile solo a posteriori, in cui si descrive l’individuo come atomo isolato che aderisce ad un contratto difensivo reciproco con il resto del corpo sociale, secondo uno schema artificiale che non considera il fatto che individuo e comunità non sono concetti pensabili se non insieme. Inutile dire che quest’idea è alla base del meccanismo di riproduzione capitalistico, e che è la fonte di ogni male sociale odierno.


Distinzione nell’unità e nella compenetrazione reciproca, è invece a mio avviso la reale descrizione del rapporto tra individuo e comunità. Senza distinzione, infatti, si ricorre ad un artificio di segno opposto altrettanto pericoloso, che vorrebbe far scomparire, sempre attraverso un’operazione astratta a posteriori, l’importanza dell’autonomia comunitaria e dell’autonomia individuale come spazi rigorosamente diversi con il conseguente annullamento di ogni spazio intermedio tra singoli e comunità umana totale.


Riconoscere tale differenza è importante soprattutto per rivendicare concetti spesso negletti o ostaggio di false o persino osceneva interpretazioni e manipolazioni, che affronterò nei prossimi paragrafi.

(Segue)

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