Il tramonto della lotta di classe e l’evanescenza del proletariato

Maurizio Neri

Secondo Marx, «il proletariato è rivoluzionario o non è nulla». Questa famosa citazione viene usata di solito per ribadire la necessità di una caratterizzazione rivoluzionaria del proletariato, senza la quale tale classe viene svuotata della propria vocazione storica. Tuttavia, ad una analisi più attenta, ci si rende conto che il significato più esatto è che, in assenza di rivoluzione, il proletariato non esiste. Per i militanti rivoluzionari, invece, come anche per Marx, non si milita nelle organizzazioni rivoluzionarie perché esse rappresentano dei movimenti che agiscono in maniera rivoluzionaria ma perché sono convinti che tali organizzazioni sono rivoluzionarie per vocazione e che, pur vivendo in un’epoca di cosiddetto «riflusso della militanza», arriverà il momento in cui la «classe eletta» per antonomasia – il proletariato – dovrà per forza di cose acquisire coscienza della propria forza e prendere il potere dei mezzi produttivi. Nel frattempo ci penseranno i capitalisti a sviluppare le forze produttive e a porre le basi per il comunismo.

Nel quadro complessivo della sinistra antagonista gli analisti e gli osservatori delle dinamiche di crisi nell’ambito capitalista occupano senz’altro un posto di rilievo, riuscendo a riempire pagine e pagine cercando di spiegare che il capitalismo ha accumulato contraddizioni insanabili al proprio interno, che esso è già da tempo entrato in una crisi profonda che i capitalisti stessi non sono in grado di far fronte. Ma, sebbene le contraddizioni interne del capitalismo non siano state risolte, la sua incapacità a risolvere i problemi non è letale: è come se avesse la capacità di sopravvivere alle sue disfunzioni. Paragonerei tale capacità a quella di alcuni virus che, grazie ad un sistema replicativo imperfetto e fallace, accumulano continuamente mutazioni nel loro codice genetico in modo da sfuggire al sistema immunitario dell’organismo. Nell’epoca di «dominio reale» il capitalismo cambia continuamente.

Nel corso del secolo scorso si è spezzato il filo che univa sviluppo delle forze produttive e sviluppo delle contraddizioni di classe e la vocazione storica del proletariato secondo la teoria di «san Marx» e stata confutata. Per Marx, infatti, «ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro, in modo irrevocabile, nella situazione della sua vita e in tutta l’organizzazione della società civile moderna».1 Nonostante tutti i se e i ma che vengono argomentati e nonostante tutti i discorsi portati avanti per giustificare la mancata azione rivoluzionaria della classe operaia, bisogna ammettere che tutti gli sforzi di trovare un senso razionale alla storia e, ancor di più, volere individuare nel proletariato la classe rivoluzionaria per antonomasia, si sono rivelati errati.

Ma se l’«errore» di Marx era comprensibile e giustificabile alla fine dell’ottocento e nei primi anni del novecento, continuare a credere nella «rivelazione» della teoria marxista del proletariato è un errore fatale. Le condizioni del lavoro e dell’industria nella seconda metà del XIX secolo portavano ragionevolmente a credere che le condizioni disastrose e lo sfruttamento terribile degli operai avrebbero condotto inevitabilmente ad un tale livello di contraddizione tra capitale e lavoro che si sarebbero realizzate – in maniera quasi automatica – le condizioni per un cambiamento sociale (comunista). Marx non poteva immaginare quali trasformazioni e stravolgimenti il capitalismo avrebbe attraversato; tutta la sua teoria inizia con la critica alla dialettica hegeliana che, rivestita di positivismo ed economicismo, giungerà a sostituire il percorso dello Spirito al percorso della Storia con il culmine del proletariato come classe universale. Il pensiero marxista parte quindi da una costruzione teorica per poi proiettarla nel futuro, in modo da poter fare delle previsioni su quali saranno le trasformazioni sociali e come e quando si arriverà all’esaurimento o alla crisi del capitalismo. In tal modo una teoria è divenuta oracolo e oggetto di fede duratura.

Per comprendere meglio l’impossibilità di una prospettiva rivoluzionaria del proletariato occorre capire quanto questa classe sia divenuta poco importante ed incisiva, bisogna analizzare i cambiamenti che sono avvenuti nel mondo del lavoro e le nuove dinamiche produttive, arrivando poi a chiedersi se è lecito o meno parlare ancora di proletariato.

Le condizioni attuali del lavoro salariato mi sembrano caratterizzate da almeno due elementi, la crescente carenza di qualifica e l’intercambiabilità. Entrambe le caratteristiche sono strettamente connesse. Meno gli operai sono qualificati, più essi sono intercambiabili, più sono schiavi del lavoro salariato, che diventa la chiave di volta della loro esistenza. L’automazione e la continua frammentazione dei processi produttivi rendono il lavoro sempre più facile e meno impegnativo, situazione in cui l’operaio diventa una pedina facilmente sostituibile ed il suo ruolo nei processi produttivi non è più cruciale. Con questo non voglio dire che si giungerà alla completa automazione e all’inutilità dell’operaio di fabbrica ma che una sensibile riduzione dell’importanza del lavoratore in fabbrica riduce in maniera importante il potere operaio sulla produzione.

Se il proletariato è necessario al capitalismo, è vero soprattutto il contrario: questa è una società in cui sembra che «si produce per lavorare al posto di lavorare per produrre».2 Quando l’uomo diventa puro lavoro (lavoro assoluto) non riesce a tornare indietro ed a riacquistare la propria autonomia individuale, viene catturato, organizzato e cristallizzato nella comunità materiale o utilitaristica. Il capitalismo ha colpito alla base ed ha oramai affossato i pilastri del «socialismo scientifico»: il lavoro operaio non comporta più nessun potere e non è più un’attività professionale specifica, sia essa esercitata in fabbrica o nei servizi diventa un’attività passiva, alienata, pre-programmata, totalmente assoggettata al funzionamento di un apparato e che non lascia posto all’iniziativa personale.

Lo pseudo-proletariato postindustriale fa qualsiasi cosa che chiunque potrebbe fare al suo posto. È l’esecutore precario e qualsiasi di un lavoro precario e qualsiasi. E l’università, come tutte le altre istituzioni e strutture dedicate alla formazione professionale, si è adeguata a questo sistema: non costituisce valore formativo, ma fornisce esclusivamente un titolo di frequenza e di indottrinamento, utile solamente a (s)qualificare la pedina – intercambiabile – del non-lavoro precario.

Secondo Gorz, «per il lavoratore non c’è più, dunque, il problema di liberarsi nel lavoro, né quello di riappropriarsi del lavoro, né di conquistare il potere nel quadro di questo lavoro. Non c’è più ormai che il problema di liberarsi dal lavoro, rifiutandone contemporaneamente la natura, il contenuto, la necessità e le modalità. Ma rifiutare il lavoro significa anche rifiutare la strategia tradizionale del movimento operaio e delle sue forme di organizzazione: non si tratta più di conquistare del potere come lavoratore. La classe stessa è entrata in crisi».3

Note:

1.K. Marx, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 44.

2.A. Gorz, Addio al proletariato, Edizioni Lavoro, Roma 1982, p. 83.

3.Ibid. p.78.

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