L'Italia Mensile

Il Sessantotto, la vittoria del Capitale

di Alessandro Cavallini

Oggi sentiamo spesso parlare di postmodernismo, senza però che vi sia una chiara definizione di questo termine.

Normalmente si intende quel periodo storico che stiamo attualmente vivendo e che, come si intuisce dal termine stesso, segue la modernità propriamente intesa. Quindi il suo significato principale è di natura storico-temporale ma nulla ci dice sulla sua origine.

Allora cerchiamo, nel nostro piccolo, di fare un po’ di chiarezza.

Torniamo indietro di qualche decennio, ad un periodo dai più mitizzato, il Sessantotto. Si sono scritti saggi e prodotti numerosi film che ce lo rappresentano come un periodo rivoluzionario, di lotte sociali e di emancipazione.

Ricordiamo che il Sessantotto è stato un fenomeno di livello globale, nato inizialmente nei campus universitari degli States e poi velocemente diffuso in tutto il mondo, specialmente in Europa.

Concentriamoci adesso sulla versione italiana di questo fenomeno.

Non possiamo di certo negare che il Sessantotto abbia avuto alcuni tratti rivoluzionari. Sicuramente ha permesso di portare avanti lotte sociali che hanno migliorato le condizioni dei lavoratori e ha, altresì, svecchiato la struttura burocratica e sclerotizzata del sistema universitario italiano.

Senza dimenticare un altro aspetto molto importante di quel fenomeno, almeno nella fase iniziale dello stesso: per la prima volta l’intera gioventù si opponeva al Sistema, senza distinzioni tra destra e sinistra.

Nella famosa battaglia di Valle Giulia del primo marzo 1968 a scontrarsi con le forze dell’ordine c’erano in prima linea gli esponenti più importanti della destra extraparlamentare dell’epoca e in numerose università le occupazioni erano portate avanti unitariamente da giovani militanti di sinistra e destra.

Poi però sono arrivati gli sgherri borghesi del Pci ed i mazzieri di Almirante a riportare tutto nell’alveo più comodo per il Sistema, rilanciando un certo antifascismo già all’epoca anacronistico.

Ma torniamo all’essenza del Sessantotto.

Dietro le bandiere rosse e gli slogan rivoluzionari, quali erano i veri obiettivi dei leader della protesta, per lo più appartenenti alla classe medio-borghese quella che oggi si definirebbe radical chic.

La libertà anarcoide di fare qualunque cosa, non ponendo limiti ai propri desideri. Anzi, chiedendo che gli stessi diventassero dei diritti garantiti.

Non vi ricorda niente tutto ciò?

Esattamente quello che stiamo vivendo in questi anni: teoria gender, cancel culture, woke, eutanasia, aborto e tutto il resto.

Possiamo dire tranquillamente, senza paura di essere smentiti, che l’attuale postmodernismo è il figlio legittimo del Sessantotto.

Ma allora tutte quelle bandiere rosse e le lotte sociali?

Diciamo che servivano ad offuscare i reali obiettivi del Movimento, una sorta di “rivoluzione colorata” ante litteram.

Si fingeva di voler l’emancipazione dal Capitale ma si è ottenuto tutt’altro: l’emancipazione del Capitale.

Oggi infatti il capitalismo è il soggetto vincitore della storia e si è diffuso in tutto il mondo grazie soprattutto alla (pseudo)cultura generata dal Sessantotto.

Voler trasformare tutti i desideri in diritti e cancellare le diverse identità della persona umana (culturale, nazionale, religiosa, persino sessuale), ha dato vita all’uomo consumatore, modello ideale per l’attuale globalismo.

Questa è la realtà degli effetti prodotti dal Sessantotto.

Quando i “reduci” di quella stagione di lotta si trovano nei vari talk show (spesso presentati da uno dei loro ex compagni…) a parlare di quanto fossero giovani e rivoluzionari, dovrebbero essere più onesti e chiedere scusa per aver permesso alla postmodernità di affermarsi.

O, quanto meno, dovrebbero rinchiudersi in un religioso e dignitoso silenzio e riflettere sui loro errori.

Di sicuro, nessuno sentirebbe la loro mancanza.

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